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Malindi - Kenya

1° giorno - partiamo alle 22.20 del giorno prima e dopo 8 ore e mezza atterriamo a Zanzibar, nel quale stiamo fermi un’oretta per poi ripartire e all’aeroporto di Mombasa arriviamo alle 13 ora locale (ovvero le 11 in Italia). Menzione di merito non può essere attribuita ai genitori di un bambino che durante tutto il volo notturno  non ci ha risparmiato pianti e vagiti. Paghiamo 40 € a persona per il visto.
Subito troviamo una ragazzo della Phone&Go che ci accoglie e ci accompagna al pulmino che ci porterà al nostro villaggio dopo altre 2 ore di strada, dove dai finestrini impolverati iniziamo già a scorgere tratti della vera Africa.
Arriviamo al Lowford che sono già le 15 passate (ora locale, ci sono 2 ore di fuso in avanti), non abbiamo nemmeno il tempo di pranzare che subito veniamo convocati per una riunione di benvenuto dove ci vengono brevemente spiegati i servizi dell’Hotel, ma soprattutto ci vengono proposte le diverse escursioni e Safari, mettendoci fretta sulla decisione in quanto i posti sono limitati, a loro dire.
Prima di venire a Malindi ci eravamo ovviamente informati sulla possibilità di fare un safari e sapevamo già quali tour ci avrebbe proposto il nostro villaggio e anche a che prezzo, ma sapevamo anche che sulla spiaggia avemmo incontrato i cosiddetti “Beach Boys” che ci avrebbero offerto le stesse cose a prezzi inferiori. È difficile per me pensare di andare in un paese straniero e affidarmi a dei ragazzi di strada, ma il web sfornava commenti positivi da ogni sito. Così dopo la riunione andiamo a passeggiare in spiaggia e subito veniamo assaliti da decine di ragazzi che ci portano le foto delle loro escursioni. Fingiamo di essere scettici e tiriamo ancora un po’ il prezzo. Il Lowford ci ha offerto il Safari di 2 giorni a 260 € e il Safari Blu a 50 €, con i Beach Boys riusciamo ad ottenere queste due escursioni ed altre due, alla spiaggia di Sheshale e a Marafa, a 250 €. Il risparmio è evidente e l’organizzazione scopriremo essere pressoché identica perché anche l’Hotel si appoggia a ragazzi come loro.
Finalmente riusciamo ad andare in camera che è grande una cinquantina di metri quadri, con un salottino privato e un bellissimo terrazzo, fin troppo  grande per noi due. Da qui si vede il giardino e le dune della spiaggia in lontananza, per le quali il Lowford è famoso.
Verso le 18 incontriamo i Beach Boys alla sbarra nel nostro villaggio, loro non possono entrare, e ci accompagnano  alla loro agenzia, che non è altro che una stanza intonacata con una scrivania, due sedie e una calcolatrice, lì diamo un acconto di 50 € ed il saldo alla partenza. Subito dopo chiedo ai ragazzi se mi possono trovare una scheda sim keniota perché le chiamate per l’Italia costano davvero molto e loro in qualche minuto me la fanno avere. Il costo è di 5 € con quasi 2,50 € di traffico. Le ricariche sono da 1.000 scellini che sono circa 1,20 €. Siamo ancora nel loro ufficio quando mi spiegano come funziona la scheda che è davvero semplicissima. È il primo giorno e siamo un po’ spiazzati dall’invasione di ragazzi che abbiamo intorno. Sono davvero tutti gentili con noi, ma sono tantissimi e non so a chi mi devo rivolgere per qualsiasi domanda. Tutti parlano italiano benissimo e si vede che hanno bisogno di lavorare. Tornando al Lowford, Fortunato ci fa un po’ da guida turistica, ci mostra il casinò, i bar, il mercato e ci spiega perché tutti loro hanno nomi così strani, in realtà il motivo è abbastanza intuibile, per far in modo che i turisti italiani si ricordino i loro nome. Lui si chiama Fortunato perché il suo vero nome è Bahata che in swahili significa appunto “colui che ha fortuna”, ok e questo è andato, gli altri sono Pappagallo, Totti, Sindaco, Barbanera, Gaetano, Pipistrello e di loro mi è dato sapere solo che si chiamano così e non il perché.
Sempre Fortunato prosegue a parlarci un po’ della loro vita, ci chiede di non dare soldi ai bambini che chiedono l’elemosina perché loro vorrebbero combattere l’analfabetismo che ancora c’è nel loro Paese, ogni bambino che è in strada non è a scuola ed ogni bambino che riceve qualcosa dai turisti è un bambino che penserà più semplice stare a mendicare piuttosto che studiare. Sono d’accordissimo con tutto questo e sono davvero felice che anche loro la pensino come me, certo non tutti i turisti avranno la sensibilità di capire che quell’euro che donano non fa bene, ma solo molto male. Di coloro che fermano il turista per vendere gli oggettini di legno, invece, dicono che hanno bisogno di mangiare, come tutti in Kenya, e che se è possibile di acquistare qualcosa. Di aiutare chi vende il frutto del proprio lavoro, ma di evitare di fare la carità a chi se ne sta seduto ai lati della strada.
Tornati al Lowford ci imbattiamo in un gruppetto di bambini che chiedono di dargli qualche moneta, ma noi siamo freschi delle raccomandazioni di Fortunato ed armati di buon senso, così non cediamo. Visto che con me non c’è speranza, corrono dal mio fidanzato che con mio grandissimo stupore non cede.
La cena viene servita in una sala aperta sul giardino e dal tetto di paglia intrecciato. I cuochi sono bravissimi e gentili e cucinano bene quanto quelli italiani. Da una finestra che si affaccia sul parco si possono vedere una miriade di canarini giallissimi che abitano i loro nidi costruiti su cannette o sulle palme. Saranno i principali soggetti delle mie foto per tutta la settimana.
Dopo cena ci spostiamo nel salottino a lato di una delle piscine e ci rilassiamo tra i suoi enormi divani, guardando le foto in bianco e nero degli esploratori che alla fine dell’Ottocento facevano i primi safari. Prima di andare a dormire voglio vedere le stelle, il cielo d’Africa deve essere meraviglioso, così andiamo verso la piscina dove ci sono i lettini per sdraiarsi e non appena distesi sentiamo delle voci che ci chiamano per nome, mi guardo intorno e sì, sono un po’ miope, ma vedo che lontano, al di là della rete, ci sono i bambini con i quali abbiamo parlato prima di cena. Con uno sguardo interrogativo fisso il mio fidanzato, al quale viene in mente di aver raccontato loro di giocare a calcio e loro hanno subito pensato di avere davanti a sé un giocatore della nazionale italiana, in realtà lui gioca in una squadretta di seconda categoria che alla fine dell’anno probabilmente retrocederà in terza, non esattamente quello che loro immaginano, ma a nulla è servito spiegarglielo e per tutta la settimana siamo rimasti il calciatore e la sua velina. Il giorno dopo la notizia si era già diffusa e quando passavamo a piedi per la città e le persone ci salutavano per nome.

 

 

2° giorno - al mattino inizia a piovere proprio mentre ci stiamo preparando per andare al mare, così decidiamo di cambiare i nostri programmi e di farci un giro per la città.

Malindi non è una città come la immaginiamo noi, non è neanche lontanamente immaginabile per noi “europei”. Case in muratura non esistono, sono rarissimi gli uffici costruiti con i mattoni, la maggior parte dei negozi sono fatti di fango intonacati e dipinti. È un paese molto povero, ma non è assolutamente pericoloso andare in giro da soli. Certo, ad ogni passo si viene fermati da qualcuno che tenta di vendere prodotti dell’artigianato locale, ma basta essere decisi nel dire no e dopo poco la gente smetterà di assillare.

 

MERCATO DI MALINDI
Decidiamo di andare a vedere il mercato vecchio che si trova poco distante dal Lowford, in direzione Watamu. Lungo la strada notiamo una bancarella che vende bellissime conchiglie, ma non mi avvicino neanche perché so che ci sono pene severissime per chi esporta questi oggetti. Arrivati al mercato vediamo che è una distesa di baracche di lamiera, tutte numerate. Iniziamo a camminare tra la folla e subito veniamo accolti e un po’ anche assaliti dai venditori. Ognuno vuole che io vada a vedere i suoi prodotti, ma ci sono così tante cose nuove per me e io non so più dove guardare. Dopo una mattinata di scelte e soprattutto contrattazioni fino all’ultimo centesimo (in euro e scellini) torniamo a casa con tre scacchiere in pietra (totale 1.000 scellini), due presepi (600 scellini), infiniti ciondolini e monili e il mio pezzo preferito una scatolina a forma di Africa con un bottone a forma di Kenya, posizionato dov’è questo stato, che si rialza per far scorrere il coperchio. Bellissima, sì infatti ne ho prese tre a circa un paio di euro l’una. Da regalare, un paio di posaceneri a forma di ippopotamo e due quadri fatti con le foglie di banano.
Torniamo all’hotel per mangiare ed i cuochi si superano ogni giorno con dei primi di pesce splendidi. Con il sole poi riusciamo a vedere meglio i canarini vicini alla nostra finestra.
Il pomeriggio splende di nuovo il sole, così andiamo in piscina dove si svolge una prova di attrezzatura subacquea, alla quale ovviamente partecipiamo facendo amicizia con l’istruttore. Il bar della piscina serve ottimi cocktail a prezzi veramente bassi, alle cinque inoltre viene servito il tè con i pasticcini vicino al laghetto degli uccellini.
Prima della merenda ci concediamo due cocchi con l’istruttore di sub che ci parla un po’ della sua gente. Il barista ci prepara il cocco con tanto di composizione fiorita a bordo bicchiere, prima lo beviamo, poi lui torna ce lo spacca e lo pulisce e mangiamo anche il frutto, il tutto per 150 scellini.
La sera siamo stremati ancora dal viaggio e passeggiamo un po’ per il parco godendoci il clima ed i suoni africani.

3° giorno - saltando la colazione, data l’ora, andiamo subito davanti alla sbarra del Lowford e i nostri Beach Boys, Fortunato e Pappagallo, ci affidano al loro collega Issa (Totti).

 

SAFARI ALLO TZAVO EST

Con lui, a bordo di una jeep dal tetto aperto, ci prepariamo al nostro viaggio e in un paio d’ore siamo all’ingresso del parco Tzavo Est, il più vicino a Malindi. Già nel tragitto respiravamo la Savana, nel vero senso della parola, più propriamente respiravamo la polvere della Savana.
La nostra squadra era ben assortita, oltre a noi due spiccavano due siciliani dei quali purtroppo faccio ancora difficoltà a dimenticare le simpaticissime battute e un vecchio che si atteggiava da grande avventuriero (al massimo poteva avere l’abbonamento al National Geographic) con la sua giovane moglie al fianco.
La prima cosa che vediamo sono i coccodrilli e le scimmie che ci corrono incontro. Poi entriamo nel parco vero e proprio alle 10.15, saliamo in piedi sui sedili e iniziamo a cercare gli animali. Io non ci vedo molto da lontano, ma credo che nessuno di noi avrebbe visto molto senza la vista di falco del nostro autista. Il primo incontro ravvicinato lo abbiamo con gli struzzi che vagano tranquilli per la prateria, quindi vediamo degli strani tacchini blu e dei bufali con le corna lunghe.
Verso mezzogiorno ci fermiamo a pranzare in quello che sarà poi il nostro campo per la notte, Ndololo Safari Camp. Ci mostrano le tende nelle quali dormiremo e sono bellissime, molto grandi con due letti a baldacchino e il bagno in muratura, molto più di quello che avevamo realmente bisogno. L’acqua proviene da cisterne e l’elettricità da un generatore che alla sera viene spento. Facciamo una piccola pausa sdraiati sul letto, io mi addormento e mi risveglio dal suono del cellulare. Chi mai mi chiamerà sul numero del Kenya? Non ce l’ha neppure mia madre! Rispondo. È Fortunato che il primo giorno, prima di darmi la scheda sim, si era preso il numero e voleva sapere come stava andando il Safari. Ancora un po’ addormentata comincio a parlargli degli elefanti, degli struzzi e di tutti gli animali che ho visto, poi mi chiede se le tende sono di nostro gradimento e non potrebbero essere altrimenti. Alla faccia della privacy, è stato molto carino a chiamarmi per sapere se tutto stava andando per il meglio.
Siamo ripartiti poi per la ricerca degli animali. Il nostro autista chiamava con la ricetrasmittente gli altri autisti e si faceva dire da loro se avevano avvistato qualcosa, così si andava a colpo sicuro. Certamente nell’Ottocento, quando si facevano i primi Safari, l’atmosfera era tutta un’altra. Gli appostamenti potevano durare ore, ma poi l’avvistamento era davvero meritato. Ora andiamo sul sicuro, ma certo è il prezzo da pagare per permettersi di fare un safari di due giorni vedendo tutti, o quasi, gli animali che si trovano nel parco.
Vediamo bene le giraffe, che prima avevamo scorto solo in lontananza, ed un paio di marabu che passeggiano in una pozza d’acqua. Scorgiamo da lontano le manguste sopra un termitaio e una leonessa intenta a cacciare, ma questa è tanto lontana e la mia miopia tanto abbondante che solo dal teleobbiettivo della mia fotocamera posso appena scorgere un animale, di distinguerne anche solo la specie comunque non se ne parla. Mi sembra un po’ come quando da piccola guardavo il cielo la notte di San Lorenzo ed ogni aereo era una stella, bè ogni minimo movimento secondo i miei compagni di viaggio era una leonessa. A sentirle loro doveva esserci un branco, io per una buona mezzora non ho visto niente.
Tornando verso il campo vediamo il tramonto, ma la guida e l’autista non erano inclini a fermarsi per farmi godere il paesaggio. Volevo fare la classica foto con la savana arancione e un baobab (o un’acacia?!) sullo sfondo, ma niente non c’è stato verso.
Dopo cena un Masai ci racconta la storia del suo popolo. La storia verte specialmente sul gossip del villaggio con vari aneddoti sulla vita sessuale del capo tribù. Il Masai parla in inglese ed il nostro compagno grande esploratore della natura selvaggia traduce per la sua mogliettina a voce tanto alta che persino io, che mi sono messa, non a caso, dal lato opposto al suo del falò nonché a favore di vento per evitare di finire intossicata dal fumo, posso sentire e divertirmi delle sue pittoresche traduzioni.
Il Masai racconta che nella sua tribù si possono avere più di 10 mogli. Ci sono quelle che costano 5 mucche che hanno già figli, quelle che costano 10 mucche che sono state raccomandate da qualche amico e quelle che costano 25 mucche che hanno la bellissima (?) particolarità di avere i denti separati.
La luna, questa notte, ha uno strano alone tondo e molto grande e il Masai ci spiega che sta arrivando la pioggia e puntualmente un’oretta dopo iniziamo a sentire le gocce cadere sulla polvere.



4° giorno - partiamo al mattino molto presto, dopo una breve colazione aggrediti dai babbuini ruba biscotti, ma gli avvistamenti sono scarsi. Qualche avvoltoio e un’iguana, ma il panorama della savana all’alba è indimenticabile. Ci avviciniamo al fiume Sabaki, che è lo stesso che sfocia a Malindi e che durante la stagione delle piogge porta la terra rossa che sporca l’oceano. Noi siamo stati fortunati però, il mare lo abbiamo sempre trovato bello. Il fiume ha tre nomi diversi a seconda delle terre che attraversa, infatti si chiama Sabaki a Malindi, ma nella savana ha un altro nome.
Scesi dalla jeep ci avviciniamo alla riva per scorgere qualche ippopotamo sonnacchioso che spunta appena dall’acqua. Il fiume è bellissimo e il suo colore rossastro contrasta moltissimo con il verde della vegetazione. Uscendo dal parco, per aspettare l’ora di pranzo torniamo a vedere i coccodrilli e le scimmiette. Ieri non ci eravamo accorti di quanti cuccioli di scimmia ci fossero nella zona. Li vediamo aggrapparsi alle loro mamme e girovagare fra le nostre caviglie, io non sono particolarmente entusiasta, come invece sembra essere il resto del gruppo, questa mattina ho avuto un incontro troppo ravvicinato con un babbuino che mi ha attaccato all’uscita della mia tenda e preferisco tenermi alla lontana anche se queste sembrano decisamente più amichevoli.
Alle 10 usciamo dal Parco, infatti il biglietto è valido per 24 ore ed è necessario uscire alla stessa ora di ingresso del giorno prima. Sapevo già di questa cosa e prima di venire ho pensato a lungo se fare il safari di due giorni o di uno soltanto però credo che dormire all’interno della savana ed avere più tempo per godersi l’avventura ne valesse realmente la pena.
Dopo pranzo ci avviamo verso il villaggio, fermandoci a visitare una scuola e a portare i vestiti che avevamo preso dall’Italia. La scuola è fatta di fango, come tutte in Kenya, e c’è una classe sola dove studiano i bambini dai 3 ai 13 anni, tutti insieme.
I villaggi dove siamo passati sono esattamente come ci vengono raccontati, io non credevo fossero ancora così. Non c’è acqua e non c’è elettricità. Ovviamente manca anche la fognatura e per cucinare si usa la brace. Non ci sono edifici in muratura, se non le chiese costruite da qualche missione europea. Le donne andavano avanti e indietro dal fiume con i vestiti da lavare messi in ceste che tenevano in testa.
La povertà era tanta, ma nessuno era senza un cellulare. Così ho chiesto a Issa come fosse possibile questo dato che nelle capanne non c’era l’elettricità e non era possibile ricaricarli, lui mi ha spiegato che loro si recano in un centro apposta per la ricarica e con 10 scellini, due ore dopo, possono ritirare il cellulare carico. Le chiamate costano così poco che tutti possono permettersele, per ogni telefonata si spendono circa 3 o 4 scellini.
Torniamo al Lowford e Fortunato ci sta attendendo davanti alla sbarra per salutarci.
Dopo cena, nel tentativo di scappare dai siciliani, ci fermiamo a parlare con una coppia di Modena che ci racconta la loro divertente esperienza con i Beach Boys. Bisogna premettere che vige una rigida gerarchia che impone di non rubarsi i clienti a vicenda. Lavorano tutti in coppia e il turista che parla per primo con un Beach Boy non sarà più avvicinato dagli altri. Sembra una regola semplice, ma è rispettata in maniera ferrea. Martina e Nicola (i modenesi) avevano preso accordi dall’Italia con un ragazzo che li avrebbe portati a fare il safari e poi, causa incomprensioni varie, si erano accordati per farlo con un altro. Quando i due si sono incontrati è scoppiata la lite che è degenerata con l’arrivo della polizia e dei relativi interrogatori ai due turisti, con tanto di interprete. A Malindi il reato di “furto” di cliente è punito con la detenzione in carcere. Martina è riuscita comunque a mediare e a calmare gli animi dei litiganti.
Scopriremo più avanti che anche per noi sia accaduto qualcosa di simile tra Fortunato e Pappagallo (la coppia che per prima ci ha rivolto parola) e Issa e Sindaco, ma pare che l’epilogo sia stato meno importante dato che noi non ce ne siamo nemmeno accorti.

5° giorno puntuali andiamo alla sbarra, ma Raimondo ci dice che il tempo non promette bene, infatti una leggera pioggerella fastidiosa ci sta bagnando, così rimandiamo l’escursione al giorno dopo. Il che mi provoca problemi non indifferenti perché ho una tabella di marcia precisa se voglio vedere tutto quello che mi sono ripromessa in così pochi giorni, ma l’Africa elargisce sempre i suoi regali e dopo mezz’ora il sole splende in cielo, così partiamo con i tuk tuk, Apecar adattati a taxi, alla volta del parco marino di Watamu.

 

SNORKELING e ISOLA DELLA STELLA MARINA (SAFARI BLU)

Prendiamo una barca per spingerci più a largo nell’oceano indiano. In pochi minuti raggiungiamo la barriera corallina dove ci fermiamo per fare un po’ di snorkeling tra i pesciolini tropicali. Dopo una mezzoretta ripartiamo per raggiungere l’Isola Della Stella Marina dove di stelle non vediamo neanche l’ombra, ma in compenso riesco a prendere tra le mani un pesce istrice.

Passeggiamo un po’ con i piedi immersi nella sabbia bianca e veniamo ben presto circondati da venditori ambulanti che arrivano sull’isola con canoe di legno. Ma siamo in mezzo all’oceano! Come fanno a venire anche qui? Sono incredibili…

Verso le 11 ci spostiamo sull’isola che loro chiamano Sardegna Due per omaggiare la nostra isola che sicuramente loro non hanno mai visto. Questa è una lingua di sabbia bianchissima che la bassa marea lascia scoperta in mezzo all’oceano, davvero molto suggestivo. Alberi non ce ne sono, è solo sabbia che affiora dal mare.

Mentre ci godiamo quest’acqua trasparentissima e finalmente trovo una bella stella marina rossa, i ragazzi che ci hanno accompagnato fino a qui allestiscono un piccolo barbecue e cuociono le aragoste, un’infinità di aragoste. Ci hanno raccontato che le hanno comprate al mercato del pesce questa mattina alla modica cifra di 15 scellini l’una.

Risaliamo sulla barca per mangiare al coperto dal sole, cha a mezzogiorno è particolarmente caldo. Il pranzo comprende riso con sugo di cocco, aragoste e scampi a volontà. Non credo neanche di averne mai visti così tanti tutti insieme! Tutto ottimo. E per finire cocco e mango che i ragazzi ci preparano al momento.

Mentre stiamo mangiando guardo verso l’isola dove sono rimasti alcuni ragazzi che stano finendo di cucinare e l’isola non c’è più, loro ci sono ancora e stanno cucinando con le caviglie nel mare, l’alta marea ha sommerso tutta la sabbia.

Dopo pranzo rientriamo in acqua, finalmente si può nuotare davvero, prima l’acqua era troppo bassa e non riuscivamo ad immergerci completamente. Un mare così io non l’ho mai visto, è meraviglioso. Non penso esista un’acqua più bella di questa! Nel giro di una mezzoretta la marea si alza ancora un po’ e non riusciamo più a toccare così dobbiamo risalire sulla barca e tornare a casa.

Torniamo a Watamu e riprendiamo il tuk tuk per raggiugere il Lowford. Arriviamo giusto in tempo per prendere il tè con i pasticcini e per farci ancora una passeggiatina in spiaggia.

La sera c’è la cena keniota, con cibi tipici del paese come la polenta bianca, il riso al cocco, ma niente coccodrillo purtroppo, io volevo provarlo! Dopo cena c’è uno spettacolino di Masai che ballano e cantano. Dura poco e poi immancabilmente cercano di venderci i monili “originali” masai, ma io ho comprato a sufficienza per questa vacanza. Non ho più neanche uno scellino.

6° giornopartiamo come sempre al mattino presto, la nostra prima tappa è il grande baobab sul quale si raccontano molte storie. Fortunato ci dice che si è nascosta e ha vissuto al suo interno la regina del luogo quando sono venuti i colonizzatori europei. Un altro ragazzo ci dice che era il luogo dove mandavano gli appestati durante le epidemie per allontanarli dalla popolazione sana, anche in questo caso l’albero gli faceva da casa. Siamo saliti fino ai primi rami del baobab, la circonferenza è enorme e i suoi frutti sono dei cocchi coperti di una peluria verde.

Proseguiamo verso il fiume Sabaki dove ci fermiamo a vedere i fenicotteri rosa e, mentre camminiamo, ci attraversa la strada un gruppo di tantissimi granchietti monochela. A piedi, passiamo all’interno del villaggio di Fortunato e vediamo le donne intente a lavare i vestiti al fiume. Abbiamo notato infatti che, benché non ci siano i mezzi a cui siamo abituati, i Beach Boys hanno sempre vestiti pulitissimi e stirati.

 

SPIAGGIA DI SHESHALE

Alla fine arriviamo alla spiaggia di Sheshale che ci abbaglia. La sua sabbia è mischiata a scaglie di pirite e brilla al sole come se fosse d’oro. L’oceano è un po’ mosso perché la notte ha piovuto e non si può proprio dire che sia bello come quello che abbiamo visto ieri, ma la spiaggia è unica.

Ieri mi sono un po’ bruciacchiata, ma non si poteva non approfittare di quell’acqua cristallina, così oggi me ne sto un po’ sotto la capanna in spiaggia, a guardare i nostri accompagnatori che ci cucinano le aragoste (di nuovo.. che fortuna!) e ad avvalermi della loro compagnia per conoscere meglio la cultura africana. Scopro così un sacco di cose sui i riti prematrimoniali e sulla vita in generale.

 

CANYON MARAFA

Dopo pranzo, abbandoniamo la spiaggia su una vecchia Toyota che in un lontano passato doveva senz’altro essere un bella macchina. La strada è sterrata, ma non troppo lunga, se non che, dopo pochissimi chilometri dalla partenza, si rompe un ammortizzatore e siamo costretti a rallentare.

Arrivati (finalmente) a Marafa, poco prima del tramonto, lo spettacolo ripaga tutta l’attesa. Il canyon è ha un colore rossastro, accentuato dal sole basso. Guardiamo il panorama dall’alto, poi Fortunato ci accompagna a passeggiare tra le pareti raccontandoci un po’ di storie su questo luogo che chiamano “cucina del diavolo” perché c’è chi giura che la notte si sentano i profumi tipici di una cucina.

Torniamo in villaggio per la cena e, più tardi, usciamo con i due ragazzi di Modena, ci accompagnano anche 007 e Gaetano, altri due Beach Boys. Gaetano, che di vero nome si chiama Mohamed, parla nove lingue e per vivere organizza escursioni per i “musungu”, ovvero i bianchi, credo il termine sia anche vagamente dispregiativo, ma non hanno voluto confermarmelo.

Decidiamo, il mattino dopo, di andare, insieme ai modenesi, a fare l’ultima escursione del nostro breve viaggio in Kenia, alla città perduta di Gede. In effetti il sito è poco lontano da Malindi, forse avremmo potuto arrivarci da soli, ma abbiamo pensato che questi ragazzi vivono dell’organizzazione di queste cose e lo fanno a pochissimo prezzo, è un modo come un altro per portare il nostro aiuto a coloro che lavorano.

7° giornoverso le 9 ci viene a prendere Mohamed alla sbarra del Lowford. La distanza da percorrere è poca e arriviamo in poco tempo.

 

ROVINE DI GEDE

Gede è una città medievale fondata dagli arabi che intorno al XVIII secolo è stata abbandonata senza un apparente motivo, forse per un’epidemia o per una guerra. Restano gli edifici immersi, ed in certi casi inglobati, nella foresta.

C’è una bella atmosfera tra i viali verdi e mentre ci avviciniamo al sito, la guida con un breve richiamo ci fa accogliere da una colonia di scimmie. Mohamed, prima di partire, era andato a prendere le banane al mercato e, all’arrivo delle scimmiette, ce ne da un paio a testa. Subito queste ci salgono sulle spalle alla ricerca della loro merenda.

Al centro della città c’è una piattaforma dalla quale si possono vedere le rovine dall’alto. Salire costa 1.000 scellini che, dicono, andranno in beneficienza. Le mura sono ancora ben tenute e si riesce anche a scorgere qualche portale intatto, ma la cosa più affascinante è l’atmosfera che la foresta, fondendosi con gli edifici rimasti, crea nel sito.

Alla fine del giro, siamo entrati nel minuscolo museo annesso. All’uscita un banchetto vendeva tamburelli fatti con i frutti del baobab.

Finita la nostra visita siamo tornati all’hotel e abbiamo passato la giornata in piscina.

 

8° giornosiamo partiti il mattino molto presto per l’aeroporto di Mombasa e il volo è stato diretto, senza scalo, fino a Milano Malpensa. La tratta è stata un po’ modificata rispetto a quanto previsto a causa di alcune guerre civili africane per le quali non abbiamo potuto sorvale alcuni stati.

È stato un viaggio bellissimo e l’organizzazione Phone&Go e locale è stata ottima.

In totale abbiamo pagato 1.839 € per 2 persone. La quota individuale era di 585 € alla quale abbiamo dovuto aggiungere 137 € di adeguamento carburante, 110 € per le spese di apertura pratica e quota d’iscrizione e 50 € di tasse aeroportuali.

  

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